IL MITO: CHE MENTE!
di Sara Ascoli
Cos’è un mito? Il termine deriva dal greco mythos, che in Omero significa «parola, discorso» ma anche «progetto, macchinazione», e che secondo W.F. Otto (1951) avrebbe originariamente indicato «la parola nel senso antico, che non distingue tra parola ed essere». In età classica il significato del termine si precisò in «racconto intorno a dei, esseri divini, eroi e discese nell'aldilà» (Platone; Repubblica 392a); e nel pensiero filosofico ( mythos, in quanto discorso che non richiede o non prevede dimostrazione), fu contrapposto a lògos nel senso di argomentazione razionale. Si tratta per lo più di una narrazione investita di sacralità relativa alle origini del mondo. Di solito i suoi personaggi sono dei ed eroi protagonisti delle origini. Nel dire che il mito è una narrazione sacra s'intende che esso viene considerato verità di fede e che gli viene attribuito un significato religioso o spirituale. Ciò naturalmente non implica né che la narrazione sia vera, né che sia falsa. E’ una supposizione: si presuppone che sia andata così. Non ci sono prove a riguardo: altrimenti non sarebbe un mito. E ben pochi si prendono la briga di sfatare un mito, di interrogarsi su esso. Il mito ha il sapore della fede: non si discute.
Altra accezione del termine mito, più vicina ai nostri giorni, è quella di un evento, un fenomeno, un personaggio intorno a cui si crea una leggenda fascinosa.
Ma l’accezione su cui mi interessa riflettere ora è una terza: il mito è una nostra dinamica mentale.
Quando parlo di mente, faccio riferimento a quanto precedentemente espresso nei post (Huston abbiamo un problema, San Giorgio, il Drago, Battiato e Morgana).
Dunque il mito è una narrazione sulle origini: tratta argomenti lontani nel tempo e nello spazio. Spesso i protagonisti sono eroi o divinità: anche qui la lontananza sembra essere un requisito fondamentale. Cosa c’è di più lontano dalla nostra natura di un eroe o addirittura di un dio?
Il mito è un racconto. Si racconta, si tramanda. Il mito è una voce. Ne sono spesso oscure le origini, le fonti primarie, e per lo più devono restare segrete: se vi fosse una fonte certa non sarebbe più un mito, ma storia. Ciò che è sacro verrebbe umanizzato! Il mito cade quindi fuori dal tempo: appartiene ad una dimensione temporale che risiede laddove il tempo ancora non aveva incominciato a scorrere, eppure ci riguarda in questo momento, in ogni momento. E’ un mito, quindi è sempre attuale: scandisce un eterno presente. Oltre a non avere un inizio, il mito spesso non possiede nemmeno una fine. Non si sa come sia andata a finire. Non si sa nemmeno se sia davvero finita. Spesso si preannuncia un ritorno di quell’evento, di quel personaggio, di quella situazione. Il mito non ha testimoni: appunto, non è storia.
Il mito narra di vicende fantastiche e straordinarie. Esemplari. E di esempi si tratta: di modelli a cui tendere, con l’implicita consapevolezza di non poter mai raggiungere tale livello. Sono narrazioni didattiche. Sui banchi di scuola siamo spesso venuti a conoscenza di miti di fondazione: quei racconti che stabiliscono le modalità attraverso le quali la nostra o altre civiltà hanno avuto origine; il modo ed il momento in cui la nostra realtà ha avuto inizio. Eppure il classico mito di fondazione dipinge una situazione ineguagliabile per l’uomo: sancisce la diversità tra ciò che è stato e come dovrebbe sempre essere e le condizioni di umana miseria in cui l’uomo versa attualmente. La realtà che scaturisce da un mito di fondazione non ne riproduce mai gli ori e gli sfarzi; più solitamente la realtà storica che segue al mito se ne contrappone per miseria. Allora a cosa serve un mito di fondazione? Per una civiltà un mito di siffatta natura serve a costruire un senso di sé : a delineare un’ideologia in grado di rafforzare il senso dell’appartenenza alla comunità. Un eroe o un dio sono delle individualità eccellenti. E’ difficile per le umane genti, per le masse, riconoscersi; improbabile per il singolo riconoscere se stesso nelle imprese eccezionali di un dio. Più facile è invece avvertire una certa comunanza con coloro i quali, in massa, hanno tradito il proprio senso originario e, ad oggi, non hanno altra scelta che limitarsi, più o meno intenzionalmente, più o meno consapevolmente, ad onorarne ipocritamente il significato. Mal comune mezzo gaudio!
L’appartenenza fondata dal mito non risiede dunque nella democratica ripartizione dei talenti propri all’eroe primordiale tra i suoi discendenti. Piuttosto quell’appartenenza fa capo al tradimento di quegli ideali, all’incapacità umana di riprodurre quello stato di grazia. Quei talenti appartengono al mito: è l’esclusività che ne preserva le condizioni. Nessun uomo mai oserà confrontarsi con l’eroe o con la divinità: non c’è sfida. Non si appartiene allo stesso piano dell’esistenza. Non c’è nemmeno comunicazione.
Cosa hanno a che fare, dunque, le dinamiche del mito con la nostra mente?
Tutto. A mio avviso, Il mito è una modalità della mente umana.
Abbiamo visto come si tratti di una narrazione, un racconto, una voce. Ebbene, prendiamo la nostra mente: il suo incessante brusio. E’ solo una voce. Non si sa da dove venga né dove vada. Dov’è la tua mente?’ da dove ti parla quella voce? Tu la senti nella tua testa, ma potresti davvero, seriamente, giurare che nella tua testa c’è un congegno parlante che ti bisbiglia in ogni momento? Temo che pochi sarebbero pronti a giurarlo. Per quei pochi io non sono ancora in grado di fare alcunché. Non me ne vogliano! Mi sto esercitando.
Da dove ha avuto origine quella voce? Nessuno di noi è in grado di dirlo veramente con certezza storica. Non c’erano testimoni la prima volta che ha parlato. Ma c’è poi stata una prima volta? Per lo più l’origine di quella voce si perde nella notte dei tempi. Eppure, di questo siamo tutti certi, quella voce c’è sempre stata: è sempre presente ed attuale con le sue mitiche narrazioni. Già, i suoi racconti, le sue frasi sono sempre le stesse, eppure si adattano magicamente ad ogni situazione. Certo! È un mito!
Dunque, la voce viene da un lontano temporale, da un non so dove spaziale. Distanze. Ed è lì per crearne altre. Quella voce crea distinzioni: io non so fare questa cosa come andrebbe fatta, come la fa tizio (modello di riferimento). Non merito di essere felice perché nella vita sono stato un’infedele (quindi ho un modello di fedeltà); lui non mi guarderà mai perché non sono bella (modello di bellezza); ho paura di agire e di espormi in questa situazione: temo di essere ridicolo (modello di….dignità? Rispettabilità? Autorità? Etc); sono a disagio a parlare di me perché temo di annoiare (modello di interesse); sono ancora arrabbiato con lei (modello di come lei avrebbe dovuto essere/comportarsi); si sa come vanno le cose: vanno avanti sempre i soliti (figli di papà? Ricchi? Senza scrupoli?). Potrei andare avanti all’infinito. Il fatto è che c’è sempre un modello implicito a cui la nostra mente fa riferimento. Ed è lontano, molto lontano. Talmente lontano che per lo più non ne siamo coscienti. Eppure c’è. E ci domina. E a lui ci prostriamo. A lui deleghiamo tutto il potere, negandolo a noi stessi. L’eroe o la divinità erano in grado di compiere straordinarie imprese…ma noi? Noi siamo miseri esseri umani. Non ci compete! E così il mito alimenta le distanze. Guarda una Marylin, un Elvis….loro sì sono dei miti. Chi può mai eguagliare la loro sensualità, il loro carisma? “Quelle sono doti innate”, replicherà qualcuno: ecco l’atto di fede! Nessuno sta a chiedersi come abbiamo mai potuto sviluppare quei talenti. Quasi fossero doti sovrannaturali che li collocano in una dimensione spazio-temporale fuori dall’ordinario.
Sono morti Marylin ed Elvis? Lo sono davvero? E come sono morti? Ah, le leggende sono tante…ed ognuna alimenta il mito.
Ma il figlio di Gesù e della Maddalena che fine ha fatto?
Eppure, il mito creato dalla mente non sembra riguardare protagonisti così lontani. Talvolta il modello implicito è la nostra vicina di casa, con la sua famiglia: sono così felici loro! La voce ci dice che quella famiglia è un modello di perfezione, a differenza della nostra. Sono fortunati o sono bravi…comunque rappresentano un modello che non è alla nostra portata. La mente innalza così tanto quella situazione da porla ad una distanza incolmabile per noi. Per atto di fede crediamo ciecamente alla voce che ci sussurra la nostra miserabile ed irrimediabile condizione. Non discutiamo nemmeno un attimo che ciò che vediamo è solo uno degli aspetti che possono caratterizzare quella famiglia; o che potremmo sbagliarci nelle nostre affrettate conclusioni. Soprattutto non proviamo nemmeno a confrontarci con il nostro nuovo mito, poiché ci diamo per sconfitti in partenza. Non siamo stati così fortunati; non siamo così meritevoli, non siamo così capaci; etc. Loro sono in alto e noi troppo in basso. Quel mito lontano perde la sua funzione esemplare e finiamo per sentirci più vicini a chi con noi condivide le disgrazie: a noi comuni mortali ci tocca sfiancarci per ottenere una giornata decente! Il mito fonda e ribadisce la nostra identità; ci tranquillizza sul nostro senso del sé.
Eppure è solo la voce della mente. L’unico sé che viene sancito riguarda la nostra identificazione con la mente.
Ma il mito e le distanze possono anche essere inverse: possiamo imbatterci in una persona che riteniamo talmente sgradevole o inferiore (rispetto a quale modello?) da collocarla così in basso che anche qui finiamo per annullare la possibilità di qualsiasi incontro. Presupponiamo qualcosa, la voce narra qualcosa e con fede cieca finiamo per convincerci che deve essere proprio così. Non vale la pena porsi domande o agire diversamente. Lui è là e noi siamo qui: non c’è scambio, non c’è comunione, non ci riguarda. Anche questo mito ci ricorda chi siamo noi e quali sono le nostre fratellanze: noi siamo i buoni, gli onesti, quelli che hanno ragione.
L’incontro negato, poiché implicherebbe ricoprire distanze troppo grandi, in realtà non necessita di nessun confronto con l’altro. A mio avviso ognuno di noi è un Universo. Ogni individuo ha la sua storia e la sua lezione da imparare: frequentiamo tutti la stessa scuola, ma ognuno siede in un proprio banco, ognuno è la propria classe. Non ci può essere competizione alcuna tra studenti, né confronto da realizzare.
Nondimeno il mito ci riguarda. Così come ogni mito di fondazione riguarda ogni suo singolo discendente, in modo del tutto analogo ogni mito della mente ci riguarda. Il suo non-tempo è in realtà la notte della coscienza, laddove brancoliamo del buio: il territorio delle nostre ombre, di ciò che riusciamo a scorgere solo come proiezione, pena la distruzione del nostro ego. Non abbiamo coraggio a sufficienza per guardare in faccia, da pari, ciò che erroneamente consideriamo alterità solo perché sfugge al controllo dell’io. Al mito deleghiamo il nostro potere (buono o cattivo che ci appaia): troppo duro e penoso sarebbe l’incontro con noi stessi, con il nostro doppio. Davvero posso essere così bello, felice, vincente? Sul serio posso mostrarmi così spregevole?
Tuttavia l’esemplarità del mito risiede proprio in questo: invita a prendersi la responsabilità, a risvegliare l’eroe che è in noi, a ritirare le proiezioni e realizzare la nostra divinità. Possiamo guardare al mito come ad una sorta di rivelazione dell’anima pre-cosciente, involontaria testimonianza di processi psichici inconsci messi lì a sfidarci continuamente affinché ognuno di noi ricopra quelle distanze che ci separano dall’energia inesplorata della nostra Ombra; che ci impediscono l’alchemica unione degli opposti; che ci allontanano dal nostro sacro Essere.
Distanze da coprire con Amore.


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