LA CENSURA EMOTIVA: il counseling
Si fa un gran parlare di esprimere le proprie emozioni. Eppure ancora oggi, quando chiedo in studio o a un gruppo di definire ciò che si sente, i più non sanno rispondere.
Alcuni si limitano a riportare i propri pensieri.
Io ribatto: “questo è ciò che pensi. Ma cosa senti invece (e porto una mano tra il petto e lo stomaco)?”
A questo punto alcuni iniziano raccontando ciò che NON sentono! Come se ci fosse un manuale di istruzioni occulte che impartisce lezioni su ciò che sia giusto avvertire e ciò che non dovremmo mai sentire.
C’è già vergogna, colpa e giudizio: ma non è il momento ancora di affrontare tutto questo.
E ribatto: “bene. Questo è ciò che dici di non sentire. Invece cosa senti?”
Ora noto il respiro della persona che ho di fronte: accelera e se ne avverte anche il suono. Il viso è un microsussulto continuo di contrazioni quasi impercettibili. Ma il corpo parla.
Eppure, chi siede davanti a me non lo sa dire. È certo di avere emozioni ma non ne intende il linguaggio.
Io attendo: in silenzio.
In qualche parte del corpo della persona che sta cercando di ascoltarsi, monta l’ansia: l’eloquio si fa difettoso, il pensiero balbuziente; si gratta la testa, tira su col naso, schiarisce la voce e aggiusta due o tre volte la posizione sulla poltrona che è divenuta improvvisamente scomoda.
Alcuni sentono persino il bisogno di togliere via una giacca o una sciarpa di troppo: la temperatura (ma non quella esterna) sta salendo.
Lo vedo: c’è più di un’emozione o sensazione. C’è il disagio, l’ansia, la confusione, l’imbarazzo; il senso di inadeguatezza; e manca il terreno sotto i piedi; si è fuori controllo …Ma nulla di tutto questo trova sostegno e comprensione nella parola. Resta un dolore sordo e muto. E viene archiviato.
Tocca ora alle giustificazioni: davanti a me scende una valanga di pseudo motivazioni per cui e per le quali, donde, in effetti, a ben vedere, argomentando meglio, pressappoco ma piuttosto …: “nulla. Non credo di aver sentito nulla”.
Fino a poco fa c’era la certezza di avere avuto emozioni: cosa è cambiato?
Quando si accenna al tema dell’esternare le proprie emozioni, inconsciamente, l’attenzione va all’esternazione di emozioni positive.
Attenzione: con il termine “positive” non intendo “piacevoli” ma “legalizzate” ovvero, quelle socialmente accettate o giustificabili.
È positiva e incoraggiata da tutti la rabbia per un automobilista che ci stava per investire. Non lo è quella per un genitore appena morto o per una persona molto sofferente.
Vi ho portato esempi estremi (morte e sofferenza) per mostrare come il mondo emozionale possa sgretolarsi sotto la morale comune.
Purtroppo non è la sola cosa che va in pezzi.
Le emozioni sono la porta d’accesso a un nostro fertile campo energetico. Lo sono tutte, senza distinzione. Lo è l’odio come la compassione. Hanno tutte un ruolo nel proprio processo di realizzazione: realizzarsi e farsi reali, così come farsi regali (re e doni!!!!).
Nel caso in cui in noi vi sia molta rabbia (o persino invidia) per una persona da poco defunta o in preda a grande sofferenza, scatta una censura al proprio sentire: non è ritenuto corretto; ci si giudica per essere cattivi; si teme di essere considerati cattivi; prevale il terrore che se solo si accennasse a un briciolo di quella rabbia verrebbe fuori una mole di veleno di cui dovremmo vergognarci per sempre!
Allora accadono diverse cose: 1) aumenta la rabbia per la persona verso cui proviamo rabbia: ci ha reso così cattivi e costretti a nascondere una parte di noi; siamo ora anche preda della vergogna!
2) soffochiamo ancora di più il senso di rabbia ma continuiamo ad ammalarci, a essere stanchi, a restare soli, a urtare ogni spigolo, collezionare incidenti, venire ripetutamente aggrediti da sconosciuti o abbandonati/traditi da amici e conoscenti.
3) la comunicazione con l’altro diviene complicata e ricca di omissioni (quante cose non posso dire??): nessuno sembra comprenderci più e noi ci sentiamo ogni giorno più artificiali e costruiti e meno riconosciuti.
4) giustifichiamo e razionalizziamo le condotte della persona verso cui proviamo rabbia con tutta una serie di “poverina”…
5) giustifichiamo o razionalizziamo la nostra rabbia esagerando notevolmente le colpe dell’altro per motivare il proprio risentimento.
Questo quarto punto è ripreso persino da molti approcci terapeutici: si dà la colpa al narcisista, alle condotte abusanti, all’anaffettivita’ altrui, etc. E si sovraffollano di consigli precotti e surgelati su come rispondere a queste situazioni in cui si è VITTIME!
In ognuno di questi casi la rabbia è rimasta nel buio, nell’ombra. Da lì non può assolvere il suo sacro lavoro.
Come ogni emozione o sensazione, la rabbia vive in più dimensioni: quella individuale e personale, o familiare e genealogica; quella sociale e culturale; quella spirituale, quella energetico, quella del Sé, quella universale. E se resta in ombra (rifiutata) crea una macchia scura in ognuna di queste dimensioni: si ammalano!
Dunque, va compresa (non eliminata) in ogni sua dimensione.
Su cosa ci permette di lavorare, la rabbia, all’interno della cornice di una relazione di aiuto?
Ecco alcuni esempi. La rabbia occultata indica che è il momento di lavorare sull’immagine di sé stessi: sul sé reale e su quello reale. Suggerisce che non ci accettiamo e, pertanto, che siamo il bersaglio di un plotone di giudizi su noi stessi. Dove li abbiamo appresi? Indica che non siamo consapevoli del nostro valore (diametricalmente opposto all’importanza personale) e dei nostri diritti . Che, probabilmente, ci consideriamo più o meno come un oggetto e non sappiamo nemmeno cosa voglia dire “essere umani”. Permette di lavorare sulle aspettative e il senso di delusione; sulla fiducia e sulla fede; sulle chimere e la fuga dalla realtà. Ci dice che viviamo per compiacere qualcuno o un’idea. Che abbiamo perso o mai conquistato la responsabilità personale (uno dei più grandi poteri di cui goda l’uomo). Che abbiamo diviso il mondo (ma possiamo farlo? Siamo forse Dio???) in giusto e sbagliato, rinunciando così a tutti i talenti che vanno a finire nella cartella “sbagliato”. Che non sappiamo trasformare: andare oltre la forma apparente delle cose per coglierne l’essenza. Che, non sentendoci più, abbiamo bisogno di sentirci superiori o vittime. Che temiamo di crescere ed evolvere e apprendere nuovi moti dell’animo. Che preferiamo invidiare (quanta rabbia nasce dall’invidia!!) qualcuno piuttosto che ammettere che l’altro sa o sa fare qualcosa che a me ancora non riesce bene e imparare dall’esempio che mi è stato offerto. La rabbia indica anche che ho dei valori molto forti, e in cui credo, e che forse, dovrei riconoscerli, imparare a comunicarli meglio a condividerli, a offrirli al mondo. Indica che ho bisogno, in quanto essere umano, di dire “io esisto” e che, forse, c’è qualcosa in me che impedisce di trovare un mio posto nel mondo.
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