LA PAURA DI AVERE CORAGGIO. IL CORAGGIO DI AVERE PAURA
La forma personale mi possedeva ancora.
Voleva rappresentarmi.
Aveva una storia personale, una giustificazione ben eretta.
E aveva i suoi valori, i suoi ideali, le sue lotte per la sopravvivenza.
Tutte le idee di noi stessi mettono in atto lotte per la sopravvivenza.
Lo fanno perché vogliono sopravvivere.
Non hanno vita propria: sono idee. Quindi lottano.
Come? Cercando di trasformare ogni altra cosa in un'idea.
Così c'è l'idea di cosa sarebbe giusto fare o dire; come sarebbe bello vivere; quali obiettivi avere; come si vorrebbe essere o reagire e come, invece, ci farebbe male vederci ogni volta.
Questa idea che sopravviveva in me si era fatta più dura e più forte man mano che le altre idee erano crollate.
È come se ne avesse assorbito forza e concentrazione. Me la ritrovavo lungo tutti i bordi che sfioravo: era quell'argine al flusso che mi impediva di essere.
Credevo di avere quell'argine in un'area ben precisa e sotto controllo. Credevo che da lì non si sarebbe spostato. Credevo che se avessi maneggiato con cura l'ambito esistenziale in cui imperava quel limite, sarei riuscita a vivere.
Comunque.
Così non fu.
E quell'argine prese a includere nelle sue spire ogni settore della mia esistenza. E stringeva forte adesso.
Presa nell'argine, non sapevo più sognare. E credetti, di non avere sogni.
Un giorno fece capolino un desiderio: così futile, superfluo, e così irraggiungibile da sembrare chimera!
La vita mi offrì un assaggio di quel debole sogno: un piccolo miracolo confezionato come una bomboniera di fine arte.
Vissi quel sogno breve come si vive la vita!
Ero a polmoni pieni e a casa; al sicuro quanto basti per volare lontano; al caldo quanto basti per essere nudi; amata quanto basti per odiare con rabbia.
E quando la rabbia prese a correre nelle mie vene più forte del sangue vidi le spire dell'argine divenire inconsistenti: erano sotto il mio naso e potevo morderle. Io potevo addentare e avvelenare l'idea rettile che aveva messo a strisciare la mia vita.
Allora compresi la forma dell'idea e la natura del sogno.
Quel mio piccolo sogno o desiderio era la scialuppa di salvataggio che io stessa avevo lanciato nell'oceano della vita per uscire dal porto infernale e stagnante dell'idea di me. Avevo soffiato lontano un lembo della coscienza perché, da così lontano, quella coscienza mi tendesse la mano e io potessi venire fuori. Ed era davvero lontana la sua mano. E avrei dovuto nuotare parecchio per mettermi in salvo a bordo della sua scialuppa.
Più lontano, più grande è il sogno, più energia richiede: questo è lo scopo di un sogno o di un desiderio. Non la sua realizzazione ma il processo che si mette in atto nel momento stesso in cui iniziamo a lavorare per il sogno; in cui prendiamo a servirlo e onorarlo poiché altro non è che coscienza e come tale va onorata.
La forma dell'argine che ora soffriva sotto i miei denti, aveva sventolato a lungo la bandiera della mia impotenza. Rappresentava tutto ciò contro cui credevo non vi fossero armi: era la follia irrazionale! Era una potenza nemica priva di logica, né strategia. Imprevedibile e violenta; improvvisa; sempre inaspettata; agile contorsionista e acrobata circense. Era fuori da ogni realtà condivisa e condivisibile.
Eppure era nella mia vita da sempre. Era così incredibile, assurda, violenta e malvagia, inconsapevole e inarrestabile da avere azzerato in me, per anni, la possibilità che vi fosse un modo per contrastarla.
Come si vince una potenza demoniaca che non ha logica, né emozioni; che è maestria di finzione; che non ha memorie; che non ha sogni, né passioni; indifferente e assolutamente distruttiva?
Con che armi si combatte quando si veste da etica, morale, senso comune, affetti, fragilità, malattia, vecchiaia?
Ogni volta che l'avevo affrontata nasceva in me la pena, il senso di colpa, il giudizio.
E tornavo all'impotenza.
Quella forma, l'idea di me, l'argine rettile che mi confinava la vita, che mi offriva un limite come storia personale, radici, origine, porto quiete; che si vestiva da quotidianità e lotte per la sopravvivenza; da tutto ciò che per me ritenevo inarrivabile era il polo opposto alla scialuppa di salvataggio: era l'ancora.
Così come avevo lanciato una porzione della mia coscienza in mare, come sogno o desiderio, avevo, fatto altrettanto con un'altra porzione della mia coscienza! L'avevo conficcata profondamente negli abissi: un'ancora che ogni giorno sprofondava sempre più. Fino a ritenere impossibile disseppellirla.
Le due polarità, positiva e negativa, rappresentavano i due estremi della mia pila interiore: quanto più erano distanti, tanto più grande era la pila. Tanto più potente l'energia che avrei prodotto.
Cosa c'è più irrazionale di un sogno che non è minimamente alla propria portata?
Cosa è più imprevedibile di un desiderio così tanto lontano che invece si realizza in un solo attimo con la facilità di un battito di ciglia?
Come ci si mette alla guida di un sogno che sa trascinare una vita?
Vivendo come in un sogno.
Quando sogniamo non abbiamo bisogno di imparare o sapere come fare le cose. Se in stato di veglia non suoniamo nessuno strumento musicale in sogno possiamo tenere concerti. Possiamo parlare lingue mai studiate e volare a corpo libero.
In sogno si agisce.
E il coraggio dell'azione diviene la misura della realtà.
Così, con la paura del mio stesso coraggio, avevo agito, alla guida di quel sogno che mi era stato offerto saggiare, come se lo avessi fatto da sempre.
Come in un sogno.
E attraverso il sogno vidi me stessa: mi vidi come possibilità infinita che mordeva a denti stretti le spire di un argine inerme e friabile.
Se fino ad allora, l'idea che avevo di me si rifiutava di fare cose che detestava, che temeva, che non voleva includere; che l'avrebbero fatta impazzire; che minacciavano l'integrità stessa dell'idea (dell'idea!) ... ora che il sogno mi tendeva la mano e io ne sfioravo le dita, mi ero proiettata così tanto in là dagli argini da poter levare l'ancora.
La paura del coraggio divenne coraggio di avere paura.
La fede la riposi in quella distanza tra le mie dita e la scialuppa: ne colmai il vuoto che le separava con l'amore.
L'amore poteva prendere ogni forma, così l'informai di rabbia.
Misi la rabbia nelle gengive e la sentii riempire le mascelle; irradiarsi ai denti e scricchiolare attorno alle spire esangui parole calde sino ad allora dimentiche:
"Tra rischi indicibili e traversie innumerevoli, io ho superato la strada per il castello oltre la città di Goblin, per riprendere il bambino che tu hai rapito. La mia volontà è forte quanto la tua e il mio regno altrettanto grande... tu non hai alcun potere su di me."
(Sarah, dal film "Labyrinth - Dove tutto è possibile" di Jim Henson)

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